Non calpestate le fave!

Tra le prescrizioni della dottrina pitagorica c’è quella di tenersi alla larga dalle fave: non solo evitare di mangiarle, ma anche di passarvi accanto!

Giamblico, un neoplatonico del III secolo autore della più completa biografia del filosofo e matematico di Samo, racconta che un giorno Pitagora convinse un bue, che pascolava in un campo di fave, a non cibarsene: il bue obbedì all’istante e da quel momento non volle più mangiarne.

I discepoli di Pitagora osservavano scrupolosamente questa prescrizione, anche a costo della vita. Sempre Giamblico narra che Dionisio, il noto tiranno di Siracusa, inviò a Taranto una schiera di trenta armati per catturare qualcuno dei seguaci di Pitagora che gli spiegasse questa storia delle fave.

E così, un giorno, una decina di Pitagorici in viaggio da Taranto a Metaponto cadde in un’imboscata. Gli assaliti fuggirono, ovviamente, ma s’imbatterono in un campo coltivato a fave e si fermarono per non calpestare alcuna pianta. Furono massacrati, tutti tranne Millia e sua moglie Timica, che era incinta: catturati, vennero tradotti a Siracusa e condotti innanzi al tiranno.

Dionisio chiese allora per qual motivo i loro compagni avessero preferito morire piuttosto che calpestare le fave. Millia rispose: «Quelli hanno affrontato la morte pur di non calpestare le fave; io preferisco calpestare le fave piuttosto che rivelarti la ragione del fatto.» Il reticente Millia venne allora ucciso e la povera Timica, temendo di lasciarsi sfuggire qualcosa sotto tortura, preferì staccarsi la lingua con un morso. Il mistero delle fave, da allora, è rimasto un mistero!

Moltissime ipotesi sono state avanzate nei secoli per spiegare quest’idiosincrasia di Pitagora nei confronti delle fave: ragioni sanitarie (prevenzione contro il favismo), giustificazioni magico-religiose (è la tesi dell’antropologo Frazer nella sua opera Il ramo d’oro), motivi politici (è la tesi di Aristotele: con le fave i democratici eleggevano i rappresentanti del popolo e Pitagora era un acceso aristocratico), propositi identitari (noi siamo quelli che non mangiano fave!) e di reciprocità (Lévi-Strauss sosteneva che la reciprocità è sempre stata stabilita sulla base di  proibizioni). Plinio il Vecchio, evidenziando che secondo i Pitagorici nelle fave ci sono le anime dei morti, collegava a questa credenza l’usuale offerta di puls fabata (polenta di fave) durante i Parentalia (feste dei defunti). Tali ipotesi hanno tutte un qualche fondamento, ma non convincono appieno.

Freud, in Totem e Tabù, affermava che i tabù hanno un modo di manifestarsi simile a quello della nevrosi: un evento scuote l’equilibrio psichico di un individuo e, non venendo ulteriormente elaborato, tende ad annidarsi nell’inconscio, determinando comportamenti reattivi a desideri infantili repressi. Pitagora era figlio di pastori: magari, da bambino, avrà subito un qualche trauma…

Mircea Eliade, nella sua Il tabù e l’ambivalenza del sacro, sosteneva che «sono o diventano tabù tutti gli oggetti, azioni o persone che recano, in virtù del modo di essere loro proprio, o acquistano, per rottura di livello ontologico, una forza di natura più o meno incerta». E così una fava cessa di essere un legume e diventa qualcos’altro, di più elevato e misterioso. Non solo: tanto più oscura appare la genesi di un tabù tanto più cogente diviene la sua forza.

Viene da concludere che quella di Pitagora non fosse una “prescrizione” ma un “tabù”: una prescrizione mira a coinvolgere la sfera razionale della persona, magari non riuscendovi; un tabù, scatenando paure inconfessate, tende ad annullarla.

Riccardo della Ricca

 

 

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