I mangiapolenta

La polenta è un impasto di acqua e cereali che viene cotto a lungo in un paiolo. Il suo nome deriva dal latino puls, termine che indicava una farinata di cereali (soprattutto farro) utilizzata per l’alimentazione umana ma anche come pastone per i polli-oracolo della prima Repubblica. Plinio il Vecchio ci ricorda che i Romani, per molto tempo, si nutrirono di polenta, non di pane.

Più tardi, a partire dal II sec. a.C., la polenta diventò il cibo dei poveri e dei soldati, mentre i polli-oracolo vennero passati allo spiedo e serviti sulle mense dei sacerdoti.

Romani mangiapolenta, allora? Sì, anche se, in realtà, la polenta era l’alimento base di tutti i popoli dell’area mediterranea: Plauto, in tono dispregiativo, chiamava pultiphagus (mangiapolenta) un cartaginese (un tunisino, cioè); i Sumeri consumavano regolarmente una polenta fatta di miglio e segale e così gli Egizi; i Greci, invece, preferivano la polenta d’orzo.

Nel XV secolo oltre alla farina di farro si cominciò ad usare anche quella di castagne e di fave: ce ne parla Martino de’ Rossi (l’inventore della mostarda vicentina, della pasta essiccata, della “polpetta”: un grande cuoco, insomma) nel suo Libro de Arte Coquinaria. Ma… la “polenta di fave”, che era quasi sempre accompagnata da verdure, non è il piatto tipico della cucina pugliese: fave e cicoria selvatica? È così: le fave non sono cereali ma, come questi, contengono molto amido ed è l’amido che fa la polenta! Anche le gachas castigliane, che vengono realizzate con la harina de almorta (cicerchia), un legume, sono una polenta. E, se vogliamo, anche la purea di patate lo è.

Nel XVI secolo, con la scoperta dell’America, in Europa giunse il mais e il cosiddetto “grano turco” (dove “turco” sta per “d’importazione”) cominciò ad essere utilizzato, dapprima nel Triveneto, per la preparazione della polenta.

Non fu una buona idea: il mais, infatti, contrariamente agli altri cereali, è del tutto privo di niacina (vitamina PP) biodisponibile, sicché le popolazioni più povere furono letteralmente falcidiate dalla pellagra. Questa malattia (il cui quadro clinico comprende demenza, dermatite, diarrea e decesso: le 4 D), era completamente sconosciuta alla medicina del tempo, sicché spessissimo la diagnosi emessa era di lebbra: possiamo immaginare la sorte che subiva chi era affetto da pellagra.

Anche la cicerchia (Lathyrus sativus) delle gachas è pericolosa, giacché contiene una potente neurotossina (ODAP) che causa disturbi nervosi, convulsioni e la paralisi degli arti inferiori (neurolatirismo). La concentrazione di ODAP aumenta moltissimo durante i periodi di siccità, quando cioè pastori e contadini, non avendo altro da mangiare, sono costretti a nutrirsi esclusivamente di gachas, rischiando gravi danni neurologici.

Mangiapolenta (o “polentoni”,se si vuole) sono dunque tutte le popolazioni dell’area mediterranea e di quella del Vicino Oriente. Perché dunque tale termine, sin dai tempi di Plauto, ha assunto una valenza dispregiativa? La probabile risposta -assurda, triste e crudele!- è che sia stato usato come sinonimo di “poveracci”, per indicare chi era costretto ad un’alimentazione sbilanciata e monotona; oppure, più recentemente, come sinonimo di “stupidi”, per appellare chi, essendo stato colpito dalla pellagra, manifestava segni di demenza. Come se l’esser nato povero, in entrambi i casi, fosse una colpa!

A ben vedere, l’utilizzo di quel vocabolo qualifica moralmente solo chi lo pronuncia.

Riccardo Della Ricca

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