Lionel Shriver: Proprietà – 2020

Ci troviamo davanti a dodici racconti, dodici personaggi e dodici diversi modi di intendere il possesso: il “possedere”.

Sono stati definiti “Tragicomici” ed in effetti hanno una componente “Tragi” perché riescono a riflettere perfettamente il valore e l’effetto, in senso positivo e negativo, che il possedere gli oggetti ha su di noi e sono pure “comici” in quanto la penna della scrittrice Lionel riesce a sdrammatizzare quelle situazioni che, nella loro indiscutibile realtà, metterebbero in risalto quell’eccesso, attribuito dalla maggior parte di noi, al possesso delle “cose”.

Ho appositamente virgolettato la parola “cose”, perché il titolo e la copertina di questo libro, anche se ben ricorda quella che può essere la proprietà di una casa, si spinge oltre: siamo tutti proprietari di qualcosa, di pensieri, di denaro, di affetti, moglie, figli, mariti, di ricordi di una vita, ma di tutto questo, prima o poi, potremmo venir privati, potremmo trovarci solo con la proprietà del nulla, del vuoto, dell’assenza e a quel punto tutto il nostro castello costruito sulla sicurezza e sulla conferma della nostra personalità, crollerà e con lui crolleranno tutti i nostri riferimenti.

Ognuno dei dodici protagonisti si scontrerà con l’oggetto che, in quel momento, riterrà essere il simbolo materiale della sua affermazione nei confronti del mondo, ma ne uscirà sconfitto, perché la vita non può basarsi solo sulla logica dell’avere. Del possesso. Della proprietà.

Leggiamo del postino che, rubando le lettere ad una donna, cerca di instaurare una traballante relazione, oppure in “Terrorismo interno” dove i due genitori cercano, in tutti i modi, di liberarsi del figlio ormai trentenne che, però, al culmine di un’apatia ben studiata e calcolata, riesce sempre ad evitare lo “sfratto”, e che, una volta “buttato fuori” dai genitori ormai allo sfinimento, si trasforma in un simbolo con un tal carisma da attirare attorno alla sua tenda piazzata in giardino, gruppi sempre più numerosi di “stronzi del mondo come lui”.

Nel racconto di apertura del libro troviamo Jillian offrire come regalo di nozze al suo ex fidanzato un particolare lampadario costruito addirittura con tutti i ricordi e gli oggetti personali della ragazza (c’è anche il suo dente del giudizio) che si rivelerà portatore di trambusto tra tutti i personaggi coinvolti. Con un salto al di là dell’Oceano compare Sara Moseley, una giornalista americana e la sua casa che deve subaffittare a Belfast. Sara “non era taccagna a livelli patologici, ma ricordava benissimo chi aveva pagato la volta prima la cena e l’importo esatto.” Lascio a voi immaginare quale si rivelerà la condivisione dell’appartamento con una coinquilina tutt’altro che simile a Sara.

Credo che l’autrice, (che per essere presa in considerazione ha utilizzato uno pseudonimo maschile), avrebbe potuto proseguire ben oltre i dodici racconti; il materiale su cui basarsi e su cui riflettere e farci riflettere è pressoché infinito. Ognuno di noi è legato a quel qualcosa, materiale o meno, che rappresenta la solidità illusoria dell’avere: ci si potrà chiedere: “se è un’illusione a cosa servirà?” Ma chi tra noi, in qualche maniera, non è un illuso?

Paolo Bassi

 

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