L’ultimo respiro azzurro

(Isabella Belardi)

“Io in quella casa del cazzo non ci entro!“ “Marcellino, ne abbiamo già parlato… E smettila di dire parolacce … Per favore … “ “Cazzo, cazzo, e cazzo!“ Lei si prende il volto fra le mani e comincia silenziosamente a piangere, reclinando il capo in avanti. Siamo seduti sul sedile posteriore della macchina. Davanti ci sono loro. Carlo mi fissa dallo specchietto retrovisore, Anna invece si gira e mi sorride. Lei sposta gli occhi umidi verso i miei. Una lacrima scivola giù e cade sul suo pancione. Odio quella pancia enorme! Odio quella stronza di mia sorella che ci sguazza dentro! Carlo e Anna scendono insieme per aprirmi la portiera. Anna continua a sorridere con una dolcezza struggente. Le tiro un calcio sulla caviglia destra. Proprio sull’osso. Dove fa più male. “Che cazzo ti ridi? Questo ti fa ancora ridere?“ “ Adesso basta, Marcellino! “ Sento la morsa di Carlo sulle spalle. “Lasciami stronzo!“ “Ho detto basta!“ Mi tira su a mezz’aria come fossi una penna di piccione, mentre io continuo a scalciare nel vuoto. “Guardala!“, dice costringendomi a guardarla. Il suo profilo è perfetto, appena scalfito dall’impronta giallastra e viola dell’ultimo livido sullo zigomo. Lui non la picchia mai sul volto, così non le lascia segni, così gli altri non vedono. “Vuoi che continui così?“ “Me ne fotto!“ “Egoista di merda!“ E’ la prima volta che sento dire una parolaccia a Carlo. “Non ti sta lasciando!” “Sì, invece!” “No!” “E’ momentaneo, Marcellino”, interviene Anna massaggiandosi la caviglia. “Sei in affidamento e non sarà per sempre.“ “Stronzate! Lei non mi vuole. Lei vuole quella vacca che se la divora da dentro!” Lei si volta e fa cenno di no con il capo. Il dolore le gonfia i lineamenti. La mano preme sulle labbra per soffocare i singhiozzi. Più si dispera e più la odio. “Allora vattene!”, le grido battendo i pugni sul finestrino. “Vattene via! Io non ti voglio! Non ti voglio, hai capito?” Dalla graziosa villetta con giardino ci raggiungono un uomo e una donna. “Ciao Marcellino, io sono Lorenzo …” “… E io sono Laura …

… Dal basso verso l’alto … … Dal basso verso l’alto vedo i loro contorni tremuli. So chi sono, ci siamo già incontrati. Qualcuno mi sta affondando una lama rovente al centro del petto. L’idea malvagia e insolente mi viene nel preciso istante in cui il respiro si mozza. Voglio spaccarle il cuore a metà, come lei ha spaccato il mio. “Buongiorno mamma.” E regalo a Laura il più insidioso dei miei sorrisi. Un silenzio stordito aleggia su tutti noi…. Dall’alto verso il basso … Dall’alto verso il basso ci cade sopra e ci si incolla addosso. Talmente pesante che le gambe stanno per cedere. Afferro la mano di Laura e la stringo forte, mentre con l’altra libera accenno a un vago saluto, ma quando lo faccio le ho già voltato le spalle. Lei non deve vedere la mia faccia. Mi dirigo verso l’entrata della graziosa villetta con giardino e sento la macchina che se ne va. Laura non dice nulla. Nemmeno quando mi volto di scatto e corro dietro alla macchina. Mi accorgo che sto gridando il nome di mia madre. Mi ritrovo da solo in mezzo al viale alberato e all’orizzonte c’è quel puntino nero … Sento il respiro ansante di Lorenzo che si ferma poco distante da me, in rispettoso silenzio. Sento la sua mano tremante sulla mia spalla che lo allontana con un gesto brusco. Sento i suoi passi lenti accanto ai miei che diventano sempre più pesanti. Vedo la sua ombra lunga accanto alla mia che si disegna sull’asfalto. Arriviamo insieme alla graziosa villetta con giardino, Laura è seduta sulle scale della veranda e si stringe le gambe piegate fra le braccia sottili. Laura e Lorenzo non dicono nulla. Nemmeno quando mi volto di scatto e mi aggrappo alle grate del cancello e le scuoto con tutta la forza che mi è rimasta. Nemmeno quando mi accascio a terra, vinto dalla debolezza. Nemmeno quando il sole si abbassa all’orizzonte e Lorenzo mi libera i pugni ancora aggrovigliati nelle grate. Nemmeno quando mi solleva fra le sue braccia e mi porta in casa. Nemmeno quando Laura mi sfiora la guancia con un bacio e sento il calore bruciante di quell’unica lacrima che mi cade addosso.

“Sei un coglione Marcello, lo sai?”, dice Righello fissando i suoi occhi profondi nei miei. “E Dio solo sa quanto detesto dire parolacce con te.” “Ca … Cavolo come parli bene!” Lui prende la mira e tira un sasso nello stagno come un giocatore di baseball. “Uao! Triplo salto. Vediamo se sai fare di meglio.” Righello è il mio migliore amico, anche se ha cinque anni più di me e una peluria scura sulle labbra e sulle guance che gli invidio. E non mi ha mai chiamato Marcellino. “Allora? Vuoi tirare, cagone?” Getto il sasso. “Tanto non ci riesco …” “L’ho detto che sei un coglione. Non ci provi nemmeno.” La quiete scende fra di noi. La riconosco. E’ quella che cade sempre prima delle prediche di Righello. Ci sediamo sull’erba umida. Lo sguardo chiuso nel confine dello stagno. “Che vuoi fare da grande, Marcello?” Sempre la stessa domanda. Sempre la stessa risposta. “Voglio fare il pilota. Il pilota dei Caccia.” “Vuoi fare la guerra per la tua Patria?” “Voglio fare il mercenario. Non ho una Patria. E sì, voglio fare la guerra!” “Non ti basta quella che fai tutti i giorni?” Mi giro per osservarlo meglio. Questa è una domanda nuova. Non so cosa rispondere. “Guarda che la guerra non è solo quella delle bombe e delle mitragliatrici … Io e te siamo in guerra, non lo capisci?” “ Che hai bevuto?” “Non bevo più “. “E da quando?… Dammi una cicca allora”. “ Non fumo più e anche tu dovresti smettere “. “ Mi stai facendo girare i coglioni lo sai?… Io non ti capisco … Io …” “ Vieni con me!”, dice strattonandomi. Si alza di scatto e io lo seguo borbottando parolacce e maledizioni. Non so perché, ma quando sono con Righello mi viene di adeguarmi al suo linguaggio. Prima di parlare penso a come imbastire una bella frase e ricordo le sue lezioni di grammatica. A parte oggi che non posso fare a meno di essere volgare, come dice lui. Gli trotterello dietro di mala voglia e il sorriso mi ritorna quando riconosco il prato dietro alle baracche. Ha riunito tutta la banda. E lì, ha cominciato a prendere a pugni prima il piccolo Stefan, poi Gennarino. Porca vacca! Non la finiva più. Abbiamo dovuto levarglieli dalle mani e io mi sono pure beccato un pugno sul naso che ha cominciato a sanguinare.

“Sei un bastardo!”, gli ho urlato. “Hai zozzato la maglietta pulita e adesso come faccio con Laura?” “Zozzato?”, mi fa eco lui. “Sì. Zozzato, zozzato! Stronzo!” “Ne vuoi un altro, Marcello?”. La sua minaccia è in un pugno chiuso a un millimetro dalle mie narici che gocciolano sangue. “Provaci!”, lo sfido con odio. Occhi negli occhi. Tremo. Non ricordo di averlo mai visto così violento e sofferente … “Ne parliamo dopo”, ha detto abbassando il pugno che comunque è rimasto chiuso. “Io me ne vado”. “No. Tu resti”. “Io me ne vado”. “Dopo. Adesso tu resti”. Sono restato, ma solo perché il tono della sua voce mi ha ricordato mamma … Quando chiedeva scusa a suo marito mentre gliele dava in lungo e in largo. Senza pietà. “Girate le tasche! Tutti!”, ordina Righello. Ad uno ad uno, i sette eseguono in silenzio. Qualche spiccio, mozziconi di sigarette, palle da giocolieri, carte da gioco e gomme da masticare usate. “Tutto qui?” I sette si stringono nelle spalle. “Ho detto … Tutto qui?”. Stepan e Gennarino esitano. Silenzio. Poi si chinano lentamente e tirano fuori dai calzini un bel mazzo di euro ciascuno. Pezzi da cinquanta. Mai visti prima. E sono tanti! Righello non dice niente. Li fissa in silenzio, con i pugni chiusi lungo i fianchi magri. Allora loro si tolgono le scarpe e buttano sul prato l’intero bottino, accompagnato da due sacchetti trasparenti di polvere bianca. E non è borotalco … “Questa banda del cazzo si scioglie adesso! E io non sono più il vostro capo!”, dice Righello infilandosi i pugni nelle tasche. Volta le spalle e mi guarda. “Vieni con me, Marcello?”. Io sono ancora mezzo intontito, ma faccio subito cenno di sì con il capo. Lui mi sorride tirando su un angolo delle labbra. Ci incamminiamo insieme verso la strada senza salutare nessuno. Righello mi mette un braccio sulla spalla. Non parla. Ad un tratto si ferma per guardarmi. “Ti ho fatto male?” chiede. Io mi stringo nelle spalle. “Un po’….”. “Solo un po’?…” “ E vabbe’! … Mi hai fatto male!”, ammetto alla fine senza orgoglio. “Scusa …”, dice semplicemente con il tono di mamma. “Però …” “Però?…” “Però a Righe’!… Ammazza che destro che c’hai!” Lui ride di gusto e mi abbraccia forte. “Andiamo, ti accompagno a casa …”

… La stronza è nata … Pare sia uscita dalla pancia di mamma e pare che faccia male. Una volta ho chiesto a Righello come nascono i bambini. Lui è arrossito e mi ha fatto un gesto che non ho capito. Vago. Direbbe lui. Comunque la stronza è insieme ad altri bambini e tutti piangono. Lei di più. Ovvio. E’ una femmina. Pisciasotto e puzza pure di latte. Quando mamma mi vede, allarga le braccia. Ma io non ci entro. Rimango fermo sulla porta della stanza. Il suo viso è ancora stanco e bianco. Senza sangue. Laura mi spinge verso di lei. … Ed entro fra le sue braccia … Sono fermo e rigido come un baccalà. Annuso il suo profumo e annuso forte. Tiro su e la sento dentro di me, ma non ricambio l’abbraccio. So che ci è rimasta male, proprio quello che volevo, così impara a lasciarmi da solo con questi due scemi. Lei non lo da a vedere. Mi bacia. Sui capelli, sulla fronte, sulle guance e allora sento che scotta. Brucia. Portano la stronza, lei le sta succhiando il latte. Capisco che le succhia la vita. L’odio mi fa vedere nero e cerco di tirarla via da lei. Mi prendono per le spalle trascinandomi fuori. L’ultima cosa che vedo prima di cominciare a urlare come un pazzo, è il bacio che mamma mi regala sulla punta delle sue dita.

Oggi non vado a scuola. I due scemi mi vestono con cura. Laura, mi veste con cura. Un completo scuro, camicia bianca e cravatta nera. Gli scemi sono silenziosi e pate … e pate … e patetici. Lei è voluta tornare al suo paese d’origine. Dopo la Messa che non ho ascoltato, fingendo di guardarmi intorno, mi costringono a seguire la bara fino al cimitero. Oltre le colline si vede il mare. Azzurro. Come era il colore dei suoi occhi e come è quello dei miei. Righello mi mette una mano sulla spalla. Io la faccio cadere con un gesto brusco. Scende lentamente dentro la buca. Basta. Ho visto troppo. Me ne vado e Righello mi segue. Conosco la strada della sua casa natale e mi incammino lentamente. Righello continua a seguirmi in silenzio. Siedo sulle scale. Righello si accovaccia accanto a me. “Cosa vuoi fare da grande, Marcello?” “Voglio fare il pilota. Il pilota dei Caccia”. Silenzio. “E tu cosa vuoi fare da grande, Alessandro?”. Per la prima volta lo chiamo con il suo nome. Lui alza lo sguardo verso il cielo. “Voglio volare fra le nuvole”. “Come un pilota mercenario?”. “Come quando scrivo”. E piange. “E cosa scriverai?”. “La storia di un bambino e di quella volta che ha perso il suo respiro azzurro”. Non smette di piangere. Sto per fare lo stesso. “Domani parto per Milano. Mio padre ha trovato un posto in fabbrica”, e me lo dice guardando davanti a sé. Le lacrime mi vomitano all’interno e il liquido salato si ferma alla gola. “Ci scriveremo, Marcello. Almeno io ti scriverò”. “’Fanculo …”, mormoro alzandomi in piedi. “’Fanculo!”, continuo voltandogli le spalle. “Marcello, rimani … Ho tante cose da dirti …”. “’Fanculo!” e salgo il primo gradino. “Marcello, voglio che tu sappia almeno una cosa …” “’Fanculo!” e salgo il secondo scalino. “Marcello, sei stato e sarai sempre il mio migliore amico…” “’Fanculo!” e sbatto la porta.

“Dottore?…” Paola bussa lievemente alla porta e la apre. “Ma lei non dorme mai?”. Sorrido e spengo il computer. “Sono di guardia, no? ”. Lei scuote la testa e risponde con dolce indulgenza al mio sorriso. “In realtà soffro d’insonnia”, preciso onestamente. “Le volevo dare questo. E’ arrivato oggi, ma era in sala operatoria e me ne sono dimenticata”. Mi tende un pacchetto, quasi timorosa del contatto fisico. Ho una brutta nomea, nel senso che sono considerato un misantropo di poche, selezionate parole e anche uno sporco misogino. Di quelli che si inaridiscono di fronte a uno sguardo obliquo che puzza di seduzione. Ma la tenerezza mi strugge, quelle rare volte in cui l’incontro. E Paola potrebbe piegarmi le gambe, se solo trovassi il coraggio di uscire allo scoperto. “Allora buonanotte, dottore …”. “Buonanotte, Paola …” Rigiro il pacchetto fra le mani, in realtà poco curioso e poco propenso ad aprirlo. Non mi piacciono i regali e soprattutto non mi piacciono le sorprese. Nel mio lavoro sono meticoloso, attento e, strano a dirsi, devoto. Quello che fa impazzire i colleghi quando rifiuto ingaggi privati. Umile, ma non modesto. Sono il migliore. Il miglior anestesista che si possa trovare sul mercato. Regalo la migliore sospensione tra la vita e la morte, il miglior sonno in bilico, il miglior risveglio. Io lo definisco il mio personale delirio d’onnipotenza. Apro il pacchetto, tanto non ho sonno. E’ un libro. Titolo: “L’ultimo respiro azzurro”. Di Alessandro Orsini. Le mani cominciano a tremare in modo impercettibile, ma costante. Sulla prima pagina c’è una dedica. La calligrafia non è cambiata. La salto. E leggo. Leggo per tutta la notte. Leggo fino alle prime luci dell’alba. Leggo fino a quando sento l’odore del caffè in corsia. Prendo fiato e leggo la dedica sulla prima pagina. “Sei stato e sarai sempre il mio migliore amico…” Compongo il numero di telefono scritto in calce. “… Alessandro?…” “… Marcello?…” Un atavico silenzio ritrovato. Sento un respiro spezzato dentro la cornetta. Il mio. Sto piangendo. Mi accorgo di avere il viso inondato di lacrime. Non ricordo l’ultima volta che ho pianto. In realtà non ricordo di avere mai pianto. “Alessandro?…” “Sì, Marcello?…”“Ti voglio vedere … Ho tante cose da dirti …” “Anch’io. Quando vieni?” “… Adesso?…” “Adesso va benissimo. Giulia si è svegliata…” “Giulia?…” “Giulia. Tua sorella, mia moglie … Fra circa due mesi i sarai zio”. “Arrivo …”. “ Ti aspettiamo …”.

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